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Saggio analitico sulla dicotomica essenza del paesaggio

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Quale rapporto intercorre fra paesaggio naturale e paesaggio dell’anima? Quale fondamento lega - o meglio collega - il Non-Io con l’Io?

Quale sorta di forza immanente allinea la fenomenologia con la capacità interiore di vibrare, per simpatia, in correlazione agli stimoli ch’essa stessa dona?

Prima di iniziare la lunga disputazione che cercherà di esplicare - con dovizia e solerzia - la dicotomica separazione (previamente citata) che caratterizza buona parte della visione poetica leopardiana, abbisognamo d’un’attenta analisi etimologica sul termine tanto caro al Poeta medesimo: Idillio.

Del termine si possono dare due accezioni differenti, ambo derivanti dal greco:

  • είκων: ovvero icona e denota una connotazione prettamente materiale, spesso accomunata ad un componimento bucolico di Teocrito;
  • εδος: in quanto idea e non forma;

L’ambiguità del termine, in quanto quadretto raffigurativo (der. dal greco εδλλιον), verte verso la più tangibile impossibilità di delineare la cessazione del “Naturale” con l’inizio (inteso come fenomeno) della prerogativa interiore. Non è un caso che il Bello poetico (non inteso come strettamente dipendente da qualsisia teoria estetica) sia il vago ed indefinito: l’essenza della Natura (al di là del suo esser benigna o maligna), l’integrità perentoria e sempiterna, la fluidità del divenire (πάντα ες ποταμός), degenera nel più dolce e caro infinito; questa policromia turbinosa e rapita - intesa come slancio vitale (volendo citare E. Bergson) - si muove dal più profondo istinto umano per giungere, grazie all’immaginazione, ad una Natura trasfigurata e sfocata.

Il vero è brutto dixit Leopardi, eppure la tendenza critica ad accentuare l’accezione estetica di questa affermazione appare superficiale ed effimera: non v’è sostanzialità estetica nella Teoria del Piacere (elaborata dal 1819 al 1823) bensì unicamente consapevolezza dell’immaterialità della bellezza stessa. Come si compenetra la concezione di Paesaggio con la Teoria del Piacere?

Primum è d’uopo citare Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung, in tedesco) di A. Schopenhauer deinde ci si accinge all’analisi della teoria sopracitata: una breve riflessione sull’arco temporale che intercorre fra queste due menti - che, vicendevolmente, si sono influenzate - è innanzitutto necessario.

Schopenhauer nacque nel 1788, a Danzica, mentre G. Leopardi nacque nel 1798 a Recanati: al di là della distanza spaziale, la distanza temporale - di dieci anni circa - rende impossibile delineare chi influì su chi e, soprattutto, tramite cosa. Quando Schopenhauer scrisse la sua celeberrima opera aveva trentun anni ed il ventenne Leopardi s’apprestava a concepire la sua Teoria; ambo prendono le mosse da un concetto che sarà molto caro anche a F.W. Nietzsche: la VOLONTÀ.

Tutta la fenomenologia è pregna di questa forza e l’uomo, precisa figura per antonomasia, diverge nel circolo vizioso della ricerca del piacere.

Dalla volontà nasce la ricerca, dalla ricerca nasce il quietivo momentaneo (il piacere), dal piacere nasce la mancanza, dalla mancanza il bisogno ed, infine, si ritorna alla volontà. L’impossibilità di giungere al piacere diviene il perentorio convivere con la sofferenza. Parrebbe astrusa questa ipotesi, eppure la forza che genera la mera affermazione del piacere altro non è che la sofferenza stessa. 

Ricollegandosi - volente o nolente - alla filosofia schopenhaueriana, la Teoria del Piacere si basa sulla permanenza stigia ed esiziale - bensì fortemente necessaria - della sofferenza.

Il paesaggio leopardiano altro non è che apoftegma tangibile della sua Teoria; le composizioni prendono le mosse da tre differenti punti:

  • Il ricordo (ergo il passato), concepito sotto forma di sostanza in atto;
  • Il futuro, inteso come massima potenza della sostanza;
  • L’immaginazione, intesa come possibilità astratta (sostanzialmente differente dall’essere in potenza);

ed, a sua volta, si identificano queste tre differenti posizioni con tre componimenti precisi:

  • Il sabato del villaggio identifica il futuro;
  • Alla luna identifica il ricordo;
  • L’infinito identifica l’immaginazione;

Considerando la diegesi dell’opera leopardiana, non intendendo la diegesi medesima come andamento complessivo bensì facendola derivare dal verbo greco διηγομαι - ovvero descrivere -, si desumono da queste tre κατηγορία tre tipologie di paesaggio:

  • Il paesaggio “bello” in quanto non più presente e connotato dal rimpianto e dalla nostalgia;
  • Il paesaggio auspicato, come ne Il sabato del villaggio, che descrive l’eccitazione ed il parossismo inusitatamente simbionte dell’arrivo del piacere;
  • Il paesaggio siderale, perfettamente esplicato nell’opera L’infinito;

Solo l’ultimo di questi tre viene considerato dallo stesso Poeta come perfetto compimento a-spaziale. Ci si immagini di superare quel minimo limes dell’orizzonte, ci si immagini di andare al di là del tempo e dello spazio, al di là del bene e del male, mirando interminati spazi di là da quella [siepe - sogg. (parafrasi)], sino a giungere nel perfetto compimento dell’immaginazione: là ci sarà il piacere estremo; eppure essa è mera immaginazione, essa è un’effimera speculazione, una susorniona elucubrazione, bensì in essa mi sento inebriato ed il naufragar m’è dolce in questo mare. 

 

Concludendo - ed annoverando Leopardi come laudator temporis acti - ritengo scialbo e scontato analizzare il paesaggio leopardiano partendo dalla concezione della Natura: attraverso queste mie analisi spero - o meglio auspico - d’aver esplicato con dovizia come Poetica e Fisica si compenetrino nella visione fluida e fisiologica del divenire.

La forza espressiva, la massima sensibilità, rendono il paesaggio un sostrato perfetto per connotare e rendere umano un Infinito tanto ricercato.

 

©Matteo Bona, Scritti e Riflessioni.

 Ivan Pozzoni - 24/02/2018 18:01:00 [ leggi altri commenti di Ivan Pozzoni » ]

Complimenti: interessantissimo!

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